Mostra Play. - videogame arte e oltre - Hiro, by Silvio Giordano

Start

Il mio nome è Fabio Viola. Sono nato nel 1980, proprio come Pac-Man, e una domanda mi ha da sempre ossessionato: cosa sono i videogiochi? In momenti diversi della mia vita avrei sicuramente fornito risposte differenti, perché mi rendo conto che questo linguaggio interattivo ha saputo evolversi a una velocità spasmodica nel suo primo mezzo secolo di vita ed esondare dai propri perimetri, andando a ludicizzare l’esistenza anche dei non giocatori.

La mostra “PLAY. Videogames, arte e oltre”, di cui ho la fortuna di essere co-curatore, nasce proprio per porre domande più che fornire risposte.

Ricordo ancora il Natale del 1987, quando i miei genitori, dopo lunghe e pressanti insistenze, si convinsero a regalarmi un Commodore 64. Fu l’inizio di una nuova vita e la progressiva scoperta di un mondo in cui poter salvare principesse, sconfiggere nemici mostruosi, guidare nelle città e viaggiare nel tempo. A quell’epoca i videogiochi erano apparati prevalentemente tecnologici. Le limitate capacità dell’hardware e del software spingevano noi giocatori a immaginare che quei pochi pixel su schermo fossero un’auto, un guerriero o una principessa. Con un paragone forzato, il primo ventennio dei videogiochi potremmo paragonarlo alla pittura rupestre, in un’immaginaria cronologia della storia dell’arte. Eppure in quelle semplici linee, pixelose e negli interminabili caricamenti vi era un qualcosa di magico, una ritualità destinata a unire intere generazioni future.

Inutile negarlo, i miei genitori, così come quelli di altri milioni di ragazzi sparsi per il mondo, vedevano in quell’attività una perdita di tempo. Supportavano e sopportavano a malincuore quel passatempo, non riuscendo a comprenderne le valenze positive. D’altronde, si trattava di un medium a loro sconosciuto, sicuramente non preferibile ai libri, al cinema, al teatro o alla musica, a loro molto più vicini.

Gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso sono stati l’epoca della stereotipizzazione del videogiocatore: maschio, brufoloso, insomma un nerd asociale rinchiuso nella propria cameretta a perder tempo in mondi altri rispetto alla realtà. Oggi possiamo sicuramente riderci sopra, ma questa concettualizzazione ha generato non pochi problemi.

Da allora tanto è cambiato, i videogiochi sono entrati nella quotidianità di quasi 3 miliardi di persone nel mondo e a giocare sono ormai uomini e donne, bambini e persone over 50 e a ogni latitudine del globo. Si giocano su console, pc e soprattutto su smartphone, titoli che richiedono grandissime competenze da parte del giocatore e centinaia di ore per essere completati, ma anche altri composti da sessioni velocissime, ideali per giocatori casual in mobilità.

Una galoppata tecnologica ha portato i giochi, composti inizialmente da una manciata di pixel immagazzinati in alcune decine di k-byte, a ricreare complessi in mondi 3D iper realistici, scaricabili digitalmente per diversi gigabyte. Insomma, dalle iniziali pitture rupestri si è giunti a un rinascimento del videogioco.

Nel corso delle ultime decadi sono emersi grandi e piccoli studios creativi e finanche singoli autori capaci di plasmare con la propria visione e creatività una delle più importanti industrie del XXI secolo. Per casi fortuiti della vita ebbi la possibilità, a 22 anni, di entrare in questo mondo, ritrovandomi a collaborare con tanti sviluppatori e publisher i cui giochi, sin da piccino, avevano scandito tanti momenti importanti della mia vita. Al tempo risultò difficile spiegare il mio lavoro ai più. Oggi tra i giovanissimi i lavori di game designer, pro-player o streamer risultano ai primissimi posti di gradimento. Passiamo tante ore a giocare, ma anche a guardare altri giocare su piattaforme come Twitch o all’interno delle arene fisiche dove si svolgono tornei di sport elettronici.

Ma ritornando alla domanda iniziale: cosa rappresentano oggi i videogiochi? Sono una mera attività ludica, un passatempo o, in altri termini, una forma digitale di escapismo, come spesso sono stati raccontati? O sono anche un linguaggio? Sono nuovi paesaggi digitali che si intrecciano e sovrappongono eccezionali spazi geografici fisici? Sono luoghi di socializzazione e formazione primaria delle identità individuali e collettive? Sono una piattaforma politica dove si affrontano i grandi temi della modernità, dando vita a democrazie immateriali a geometria variabile? Ma soprattutto, sono i videogiochi un’espressione culturale e artistica del XXI secolo? E se sì, quali sono i punti di congiunzione e quali gli stacchi rispetto alle già consolidate forme d’arte?

Ognuna delle sale che incontrerai rappresenta un microcosmo, una lente attraverso cui guardare il mondo filtrato dalla Game Culture. Immagina la mostra come un puzzle game: livello dopo livello, acquisirai una tessera del mosaico muovendoti tra passato e futuro, fisico e digitale, immagine statica e immagine interattiva. Temi simboleggiati in questa sala dalla relazione tra il vaso del 5º secolo avanti Cristo e le sue estetiche, e i guerrieri ripresi nel videogioco Apotheon, ma ancora individuo versus collettivo ed altre dicotomie alla base del secolo in cui stiamo vivendo.

Non resta che mettersi in gioco. Buona visita.

Condividi

Invia ad un amico

Invia ad un amico