26 aprile 1805 – Napoleone alla Venaria

La mattina del 26 aprile 1805, Venaria accoglieva uno dei suoi più celebri visitatori

A varcare i cancelli di quella che era stata per quasi un secolo e mezzo la principale residenza dei Savoia era, infatti, Napoleone Bonaparte, da poco più d’un anno imperatore dei francesi.

La sera del 18 aprile era arrivato a Torino, diretto a Milano, dove il 26 maggio sarebbe stato incoronato re d’Italia. Egli si stabilì a Stupinigi, restandovi sino al 29 aprile.

La mattina del 19 si recò a visitare il castello di Moncalieri, Villa della Regina e Superga, dove volle vedere le tombe dei Savoia. Con lui, oltre a diversi ufficiali francesi, era Felice Bernardi, capitano dei dragoni guardiacaccia, e figlio del direttore di quelli che erano stati i giardini reali. Un personaggio che per origini e ruolo conosceva a menadito le residenze già sabaude e che sembra esser stato un po’ la guida dell’imperatore alla loro scoperta.

Purtroppo l’Empereur non scrisse nulla nelle sue lettere in merito a tali visite. Le uniche (poche) notizie ci arrivano dai giornali. Il «Journal de Paris» del 3 maggio 1805, infatti, racconta che venerdì 26 aprile l’imperatore era «sortie … à cheval » da Stupinigi ed era andato «à la Vénerie, ou …. à chassé pendant quelques heures». Da altre fonti sappiamo che ad accompagnarlo era stato ancora Bernardi. La partecipazione di militari piemontesi si deduce, invece, da quanto scriveva lo stesso Napoleone al temibile Fouchè il 29 aprile: «dans toutes mes courses à Venaria [et à] Moncalieri, je n’avais que de la garde turinoise». Possiamo immaginare, quindi, che con lui fosse anche il conte Annibale Saluzzo di Monesiglio, all’epoca giovane ufficiale della Guardia. A lui anni dopo, quando l’astro di Napoleone aveva ormai iniziato il declino, il conte di Turenne, maestro della Guardaroba dell’imperatore, avrebbe donato una spada usata da Napoleone in Egitto e a Marengo (questa spada si può oggi vedere all’Armeria Reale, cui fu donata nel 1852 dai fratelli dell’allora scomparso Annibale).

La caccia a Venaria, comunque, non durò molto. Napoleone, infatti, doveva essere di nuovo a Stupinigi nel pomeriggio per ricevere il papa, Pio VII, giunto a Torino il 24 ed alloggiato al Palazzo Imperiale (così era stato rinominato il Palazzo Reale dei Savoia).

Secondo Albert Schuermans, Napoleone sarebbe andato alla Venaria anche «l’apres midi» di sabato 27 aprile (Itinéraire général de Napoléon I, Paris, Jouve, 1911, p. 200). È probabile si tratti, però, d’un errore, a meno di non immaginare una seconda caccia imperiale, di cui però non sono rimaste tracce evidente. Peraltro, Napoleone il 23 aprile scriveva a Cambacérès che egli era solito fare, appena possibile, «quelques courses à cheval dans les environ», per cui la possibilità non si può escludere del tutto.

All’epoca, Venaria era assai diversa da quel che era stata ancora pochi anni prima, quando la corte vi si recava in primavera e in autunno, ricevendovi ambasciatori, e tenendovi feste e banchetti.
«La Vénerie … a été horriblement dépouillée, démolie, ruinée en 1798 et 1799», scriveva lo storico torinese Carlo Denina nel suo Tableau historique, statistique et moral de la Haute-Italie, apparso a Parigi in quello stesso 1805. Da un anno il palazzo era stato destinato a «chef-lieu d’une cohorte de la légion d’honneur»: un uso che non pareva troppo sicuro per garantirgli da solo un futuro.

A ricevere Napoleone, invece di principi e nobili, fu un gruppo, non sappiamo quanto numeroso, di quelle famiglie di servizio che vivevano a Venaria e che, in un certo senso, costituivano l’anima del palazzo. Naufraghi d’un mondo che sino a pochi anni prima era sembrato immutabile, avevano perso il lavoro, e i pochi sussidi che ricevevano non bastavano a sopravvivere. Così raccontava il loro incontro un giornale dell’epoca:

“In quest’oggi l’Imperatore è escito a cavallo e si è portato a visitare la Certosa di Collegno e la Venaria, soggiorno de’principi di Savoia. In tale occasione si sono presentare alla M.S.I. molte persone addette già alla Casa Reale e che ora trovansi senza sussistenza. Hanno chiesto soccorso ed è stato loro accordato, avendo ricevuto in tal circostanza chi 6 chi 8 doppie; e l’Imperatore ha ordinato che si formi una nota delle medesime, onde assicurar loro una stabile sussistenza” («Gazzetta universale», n. 37 ,7 maggio 1805, p. 294).

L’immagine dell’imperatore che fa letteralmente l’elemosina agli antichi servitori di Casa Savoia è sufficientemente forte per non rendermi necessario commentarla.

Non fu allora, comunque, che Napoleone decise le sorti dell’antica reggia sabauda. Come ha ricostruito Paolo Cornaglia, ciò avvenne cinque anni dopo. Tutto iniziò nell’agosto 1809. L’imperatore era a Vienna, nel castello di Schönbrunn, dove stava trattando la pace con l’Austria, che aveva appena sconfitto. Durante una delle numerose riunioni in cui affrontava i molteplici problemi dell’Impero, ricevette un rapporto del ministro delle Finanze, il conte Martin Gaudin, duca di Gaeta, dedicato a Venaria. Questi gli sollecitava una decisione sulla Reggia.
Essa era ancora abitata dagli antichi servitori incontrati nel 1805, ma cadeva sempre più in rovina. Solo uno stanziamento di non meno di 300.000 franchi l’avrebbe salvata. Se, però, la si fosse voluta riportare all’antico splendore, inserendola fra i palazzi imperiali, allora la somma sarebbe ascesa ad almeno mezzo milione. Unica alternativa era abbatterla e mettere «le parc en culture», facendone una sorta di azienda agricola. Così si sarebbe guadagnato qualche soldo. «Mais», scriveva il ministro (che stato a Torino nel 1805 e forse aveva visitato egli stesso la Reggia), «je ne dois pas laissez ignorer à Votre Majesté, que cet édifice est mis au rang des plus beaux monumens». La domanda di Gaudin era chiara: «conserver les batimens de la Venerie et de les faire réparer, ou […] les aliéner, en ne réservant que le Parc qui serait mis en culture»?

Insomma: troppo bello per esser distrutto, troppo caro per esser restaurato: un giudizio che da allora sarebbe stato ripetuto più volte…

L’imperatore prese tempo. Forse voleva confrontarsi col cognato Camillo Borghese, che un anno prima aveva nominato governatore del Piemonte. O forse il ricordo della Reggia lo fermava dal decidere una distruzione che, pur vantaggiosa economicamente, per altri aspetti gli ripugnava. «S.M. n’a pas statu», è scritto sul documento.

Pochi mesi dopo, però, decise. La Reggia non sarebbe stata né abbattuta né venduta. In attesa di trovarle un destino, nella primavera del 1810 l’intendente della Corona fu informato che avrebbe potuto usarne quanto restava per abbellire gli altri palazzi imperiali di Torino. E così, per esempio, il pavimento marmoreo della Grande galleria e le statue delle stagioni nel Rondò furono portati al Palazzo Imperiale.
Perché Napoleone prese questa decisione? Forse in quel breve soggiorno del 1805 aveva visto qualcosa che gli aveva impedito di privarsi della Reggia. Ed aveva scelto, quindi, di mantenerla in piedi (sebbene svuotata), sperando che in futuro avrebbe potuto dare una risposta diversa. Una scelta non molto diversa, in fondo, da quella che aveva fatto, salvando Palazzo Madama, che il generale Menou avrebbe voluto abbattere per far di piazza castello una piazza d’armi. Solo che in quel caso, la posizione centrale dell’antico castello degli Acaja aveva reso facile trovare per esso una funzione d’uso.

Tornando a Venaria, la decisione sul suo destino sarebbe arrivata pochi anni dopo. Ma a prenderla sarebbe stato Vittorio Emanuele I, rientrato a Torino nel maggio del 1814.

Andrea Merlotti, direttore del Centro studi delle Residenze Reali Sabaude

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