Maggio 1775: la corte parte per Venaria
Nel Settecento, maggio era il mese in cui la corte si trasferiva a Venaria
Da dicembre sino alla festa della Sindone, il 4 maggio, sovrano e cortigiani stavano a Torino. Poi iniziavano il lungo periodo nelle residenze fuori dalla capitale. I torinesi sapevano bene che dal 5 maggio, giorno più giorno meno, una serie di carri, via via più numerosa, avrebbe lasciato la città per portare a Venaria quanto serviva. Non erano solo i cortigiani, infatti, a trasferirsi, ma anche molte masserizie ed oggetti di ogni genere che seguivano i loro proprietari nei diversi spostamenti. Solo alla fine, per ultima, sarebbe partita la corte.
Una testimonianza – tarda, ma interessante – sul trasferimento della corte sabauda a Venaria ci è stata lasciata dal teologo e filosofo svizzero Johann George Sulzer (1720-1779), giunto a Torino all’inizio di maggio del 1775, quando sovrano era Vittorio Amedeo III. Questi, a differenza di suo padre Carlo Emanuele III, alla Venaria preferiva il castello di Moncalieri, dov’era cresciuto. Ciò nonostante, aveva mantenuto la tradizione di trascorrere nella reggia sulla Ceronda almeno parte della primavera. Il più delle volte, infatti, la corte ritornava a Torino il 21 giugno, inizio dell’estate, assisteva alla festa di San Giovanni, patrono della capitale, il 24 giugno, e poi si trasferiva a Moncalieri. Durante i giorni trascorsi a Torino, mobili e masserizie venivano intanto trasportate direttamente dall’una all’altra reggia, così che i sovrani, una volta trasferitivi, non mancassero di nulla. Non di rado, però, i principi di Piemonte (il futuro Carlo Emanuele IV, con la moglie Clotilde, sorella di Luigi XVI) restavano ancora qualche settimana a Venaria.
Sulzer, nell’assistere alla partenza dei sovrani, restò colpito da quanto vedeva. «Il corteo era sfarzoso», scriveva «e faceva comprendere come la corte fosse abituata a una certa magnificenza». «Le strade erano piene di gente; e le carrozze della famiglia reale erano scortate da persone a cavallo, da scudieri, paggi, guardie: tutti in abiti da cerimonia».
L’arrivo dei sovrani e della corte a Venaria non fu da meno, tanto che il filosofo svizzero ne trasse la conclusione che «la nazione amasse prendere parte ai divertimenti della Casa Reale e che il re fosse felice nel vederlo».
Sulzer era ospite a Torino del marchese di Brezé. Questi (il cui vero nome era Gioacchino Bonaventura Argentero di Bersezio, ma che come la gran parte dei nobili piemontesi dell’epoca amava francesizzarsi) era autore di trattati sui cavalli e la cavalleria che erano stati letti ed apprezzati in tutte le corti d’Europa e che gli erano valsi anche la stima di sovrani, fra cui Federico II di Prussia. Per Brezè, quindi, non era stato difficile ottenere non solo che a Sulzer fosse permesso di seguire la corte ed assistere di persona alle feste che furono allora organizzate a Venaria per il ritorno del re, ma anche di poterlo presentare al re.
Sulzer racconta, così, che la sera del trasferimento «la grande strada di fronte al castello» (l’attuale via Mensa) «era illuminata con molto gusto». Ma, soprattutto, che il re aveva aperto i giardini della reggia alla cittadinanza e che i venariesi avevano potuto entrarvi per vedere lo spettacolo di fuochi d’artificio che celebrava il rientro del sovrano. La corte vide i fuochi dalla Galleria Grande, mentre la popolazione, accorsa «in massa», si riunì sulla terrazza della stessa Galleria e nei giardini sottostanti. In tal modo, mentre tutti guardavano i fuochi, il re e la corte godevano di un doppio spettacolo: quello dei fuochi, ovviamente, e quello del popolo che, mentre guardava i fuochi avrà certo guardato anche, dietro di sé, il sovrano e la sua corte. Un gioco di specchi, in cui le parti sociali che si osservavano dai due lati delle finestre non erano ancora sospettosi l’uno dell’altro, come sarebbe stato un ventennio più tardi. Quei momenti, però, erano ancora lontani e re Vittorio poteva esser ben felice della pace che regnava nei suoi Stati.
«Io fui colpito», concludeva infatti Sulzer, «dall’aria di soddisfazione che brillava sul volto del monarca: era chiaro che era la gioia del popolo, più che la festa in sé, ad attrarre la sua attenzione».
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